Secondo i ricercatori della Rush University, il consumo di alimenti e bevande contenenti flavonoidi potrebbe contribuire a rallentare la velocità del declino cognitivo.
Sappiamo che una dieta sana, ricca di frutta e verdura, legumi e meno grassi può contribuire a proteggerci da malattie come le cardiopatie, il cancro e il diabete. Esiste anche una relazione diretta tra gli alimenti che mangiamo e la salute del nostro cervello, l’organo più complesso del corpo. Una dieta scorretta può avere effetti negativi sulle funzioni cognitive ed è legata allo sviluppo di patologie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer (AD). Nel 2015, infatti, è stato pubblicato lo studio sulla dieta MIND, che invita a consumare verdure a foglia verde, ortaggi, frutti di mare e cereali integrali – elementi fondamentali della dieta mediterranea – per proteggere la salute del cervello e la cognizione. Ora, un nuovo studio guidato dal dottor Thomas Holland, Professore assistente presso il Rush Institute for Health Aging, fa un ulteriore passo avanti, esplorando le associazioni tra i bioattivi presenti nei prodotti alimentari – come i flavonoli – e la cognizione. La ricerca è pubblicata su Neurology.
Quali meccanismi sono alla base dei benefici dei flavonoidi per la salute? Attraverso varie reazioni biochimiche, i radicali liberi e le specie reattive dell’ossigeno possono causare danni alle cellule e, in ultima analisi, agli organi. Questo danno è noto come stress ossidativo. Quando ingeriamo alimenti che contengono antiossidanti come i flavonoidi o la vitamina E, questi agiscono come agenti riducenti ed essenzialmente ‘distruggono’ i radicali liberi e prevengono ulteriori danni cellulari e hanno inoltre proprietà antinfiammatorie. Nel 2020, Holland e colleghi hanno pubblicato uno studio su 921 partecipanti al progetto Rush Memory and Aging (MAP). Questa coorte era composta da residenti di Chicago in comunità di riposo e case popolari per anziani che al momento del reclutamento non presentavano demenza nota e che sono stati sottoposti a valutazioni cliniche annuali, con valutazioni dettagliate dei fattori di rischio e test cognitivi. Dal 2004, durante le valutazioni annuali, ai partecipanti è stato chiesto di compilare un questionario completo sulle abitudini alimentari. Sulla base di questa raccolta di dati, i ricercatori hanno concluso che un maggiore apporto alimentare di flavonoidi può essere associato a un rischio ridotto di sviluppare l’AD. L’ultimo studio di Neurology è un’estensione di quel lavoro ed esplora i tassi di declino cognitivo (CD).
In particolare, i partecipanti, che avevano un’età media iniziale di 81,4 anni ed erano per lo più donne bianche, sono stati seguiti per circa 6,9 anni e sono stati divisi in cinque gruppi uguali in base alla quantità di flavonoidi consumati nella dieta; il gruppo più alto ne consumava 15 mg al giorno. Per determinare i tassi di CD, il team ha utilizzato un punteggio di capacità cognitiva globale che riassume 19 test cognitivi. I dati sono stati aggiustati per tenere conto dell’età, del sesso, dell’istruzione, dell’APOE ɛ4, dell’apporto calorico, della partecipazione ad attività cognitive in tarda età e di altre variabili che possano avere un impatto sulla cognizione. I risultati mostrano che il punteggio cognitivo degli individui con il più alto apporto di flavonoidi è diminuito di 0,4 unità per decennio rispetto a chi aveva l’apporto più basso. Gli autori hanno poi suddiviso i flavonoidi in quattro molecole appartenenti alle classi generiche- kaempferolo, quercetina, miricetina e isoramnetina – per esaminare come ogni singolo flavonoide fosse associato al declino cognitivo. I soggetti con l’assunzione più elevata di kaempferolo avevano un tasso di CD di 0,4 unità per decennio più lento rispetto a quelli del gruppo con assunzione basso, mentre un elevato consumo di quercetina portava un tasso di CD di 0,2 unità per decennio più lento. Il gruppo con altra ingestione di miricetina aveva un tasso di CD di 0,3 unità per decennio più lento. Non è stata rilevata alcuna associazione tra isoramnetina e tassi di CD. I ricercatori riconoscono che i dati dello studio suggeriscono una correlazione, non una causalità. Inoltre, si tratta di una metodologia self-report, che può influire sulla validità dei risultati. Gli autori vogliono, come prossimo passo, confermare questi risultati attraverso altri studi di coorte prospettici, in particolare su una popolazione più eterogenea, in modo da poter generalizzare i risultati al pubblico in generale, con la prospettiva di eseguire uno studio clinico in cui si possa stabilire l’effetto reale dei flavonoidi. Sarà importante anche determinare il modo in cui i flavonoli vengono metabolizzati nell’organismo. I risultati dello studio suggeriscono che ci si possa assumere la responsabilità della propria salute e modificare il proprio stile di vita – con l’aiuto di un medico – per cercare di mitigare i danni della CD.